Sembrava un gabbiano che si stagliava all'orizzonte. Ali enormi che abbracciavano tutta la veduta dello spettatore. Come un pittore, ora, tracciava i lineamenti della figura che gli stava di fronte. Faccia scarna, labbra tumefatte, pelle giallognola. Seguiva con lo sguardo le sue dita ch si muovevano intorno alla sua figura riflessa allo specchio. Cosa gli piaceva della sua condizione? Il fatto che tutti i rapporti che aveva creato erano stupendi. Il fatto che erano parte di un dipinto se paragonati alla vita reale. Il fatto di sentirsi così superiore, così perfetto, mentre parlava con qualcuno. Il fatto di stare abbracciato, in quella condizione idilliaca, alle proiezioni che lui stesso aveva dato di sé, e che pure disprezzava. Il fatto di sentirsi così lontano da se stesso, dal mondo che lo circondava, senza neppure aver fatto un passo fuori dalla sua camera. Il fatto di sentire ogni parte del suo corpo sbattere freneticamente, come se si distaccasse da lui e fosse proiettata ad anni luce di distanza. Come se tutto fosse sincronizzato alle sue esigenze. Eppure... era una bestia selvaggia accasciata a terra. Sembra tutto così finto. Ora, come mosso da un primordiale bisogno alla sopravvivenza, nell'attesa che il suo carnefice passi ad acquietare i suoi istinti, si ferma davati allo specchio: si accorge che le sue enormi ali da gabbiano sono diventate esili braccia e che lo spettatore che lo sta fissando è il suo stesso corpo che chiede pietà.
Contributo visivo: "Zuert die fusse" di Martin Kippenberg, 1990
fermo immagine infinito della sua follia...
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