sabato 19 giugno 2010

Aurora

Non succede nulla. Silvia sembra non accorgersene. In compenso i culi delle ballerine tobagonians mi provocano piacevoli sussulti al bassoventre. Sono in una grande parata, la West indian carnival parade, che dalle prime luci dell'alba gira in tondo ad alcune aree del quartiere di Brooklyn. Uomini e donne seminude simulano atti sessuali. Stregoni vudù ballano al ritmo di musica reggae e drum’n’bass. Tra loro e le macchine fotografiche dei curiosi ci sono lunghi cordoni di poliziotti. La gioia è pesantemente controllata e tenuta sotto il livello dell’intemperanza.Una massa in festa con sovrabbondanza di maschi per le femmine, sovrabbondanza di femmine per i maschi e sovrabbondanza di guardie per tutti.Tirando le somme, mi trovo in una festa militarizzata piena di osservatori passivi che impugnano macchine fotografiche.Eppure la giornata è iniziata con un imprevisto. Giravo all’alba da solo in un parco. Aspettavo Silvia per iniziare a lavorare. Dal nulla è apparso un uomo. Me lo sono trovato davanti senza averlo visto arrivare. Si è presentato cordialmente. Diceva di chiamarsi Brian. Mi ha fatto uno strano discorso sull’immortalità dell’anima, poi è scomparso. Il suo arrivo è stato silenzioso e inaspettato come la sua partenza. Gli avevo dato le spalle per rispondere al telefono, mi sono voltato e non c’era più. Al suo posto c’era Silvia con la macchina fotografica a tracolla. Con un sorriso e un cenno della testa mi ha invitato a seguirla. I primi carri allegorici avevano iniziato a tambureggiare.Io e Silvia siamo arrivati negli Stati Uniti da circa un mese. L’obiettivo è realizzare un reportage per conto di una rivista di viaggio che intende promuovere un pacchetto vacanze di due settimane: “A (s)passo caraibico”! Quindici giorni sulle orme dei carnevali caraibici sparsi nel nord America, partenza da Montreal e a seguire Ottawa, Toronto, Boston e per finire la West indian carnival di New York.
- Se decontestualizzi queste foto, la gente che le vedrà non potrà fare altro che restarne affascinata- Silvia parla, sorride e scatta foto da non so quante ore. Io cerco di divertirmi senza riuscirci. Non le ho detto ancora nulla dello strano incontro di questa mattina.
-Lo so! La parata è monotona. Ma guarda che tipi strani! Basterà togliere qualche poliziotto qua e là, aggiungere qualche didascalia simpatica e il gioco è fatto-
Queste parole di Silvia sono un pezzo di verità. La stessa verità che c'è dietro l'atto di mostrare un profilattico a un ignaro bambino e dirgli che serve per curare le vesciche dei piedi. Lui non potrà fare altro che crederti e rimanere affascinato da un tale prodigio. Decontestualizzare per affascinare. Prendere una realtà più o meno consolidata, pulirla dalle sfumature monotone o spiacevoli, e riproporla in un luogo lontano. Non importa che il luogo sia fisico o concettuale, quel che importa è che la nuova realtà sia percepita come tale. Questo pensiero ha messo radici nella mia testa da due settimane. Prima di allora non avevo mai pensato al lato etico del mio lavoro. Tutto ha avuto inizio a Bridgeport nel Connecticut, la città che ha dato i natali al frisbee e che oggi produce elicotteri da combattimento. Ero andato a trovare mio cugino Oscar. Non lo avevo mai visto prima di allora. All’inizio degli anni settanta emigrò con una buona parte della famiglia di mia madre. All’epoca non ero ancora nato. Mio padre, ventenne, saldava capannoni industriali in giro per l’Europa. Mia madre, da poco maggiorenne, era una giovane lavoratrice sottopagata di un’industria tessile in provincia di Avellino. La curiosità per quel ramo della mia famiglia trapiantato in America mi aveva portato a conoscere quest’uomo di mezza età disoccupato, divorziato, disprezzato. Insomma, definibile solo per privazione. Eravamo seduti al bancone di uno sporting club per vecchi ubriaconi italoamericani nel centro della città. Bevevamo grappa di pessima qualità davanti a un LCD ad alta definizione.
-Caro Mario, è un'illusione. L'America è tutta un'illusione- Oscar mi rivolse queste parole all’improvviso dopo una buona mezz’ora di silenzio.
-Ho comprato un’auto nuova l’altro ieri, ero convinto di pagarla venticinquemila dollari. Quando ho staccato l’assegno c’era scritto ventinovemila dollari, ma la cosa idiota è che continuo a pensare di averla pagata venticinquemila dollari-.
Un vecchio dal profilo barbuto mi aveva sfilato il telecomando da sotto gli occhi e cambiato canale. -Quando leggo su un giornale che una compagnia ha versato le sue tasse a un fondo sociale, mi viene naturale pensare che sia stata un’azione di generosità. In effetti ho sempre pensato in questo modo. Ma ora basta! Non mi faccio più fottere!-
Dal televisore provenivano urla e gemiti. Era un pornazzo. Una donna longilinea dai capelli rossi era leggermente china in avanti con la faccia appiccicata a una vetrina.  Con la mano destra si massaggiava il seno sinistro che aveva tirato fuori dallo stretto bustino e con quella sinistra si masturbava. Ai suoi piedi, un uomo nerboruto le leccava la bocca del culo.
-Macché generosità! È tattica, una merdosa tattica per avere sgravi fiscali camuffati da solidarietà sociale, e tutto questo con l’aiuto dei giornali, che gli fanno bella pubblicità in cambio di finanziamenti- Il barista ci aveva versato altre due grappe, gentilmente offerte dal vecchio pornofilo. Tintinnio di bicchieri e giù per il gargarozzo. Oscar riprese il fiato che l’alcol metilico gli aveva tolto e concluse.
-L’America è agli sgoccioli amico mio. Le bugie si sopportano fino a quando si sta bene o si crede di poter stare bene-
Non dissi nulla, cosa avrei potuto dire? Facevo e faccio parte di quella stessa merda che mio cugino cercava di scrollarsi di dosso. Creo aspettative in cambio di vacanze gratis, odio il turismo di massa, ma nello stesso tempo lo alimento vendendo realtà preconfezionate in cui investire ferie e denaro. Scendemmo dagli sgabelli del bancone, salutammo il vecchio che rispose con un cenno della testa e ci avviammo all’uscita. Durante il tragitto di ritorno non aprimmo più bocca. Oscar mi teneva il braccio, perché di notte non vede più nulla. Da due anni è affetto da cecità notturna. Quando il sole tramonta e si accendono i lampioni, davanti a lui c’è solo buio. Se vuole vedere qualcosa è costretto a usare una parte molto periferica del campo visivo, girando gli occhi tutti da una parte, in uno sforzo assolutamente innaturale. I dottori hanno detto che è incurabile, perché il suo non è un problema di messa a fuoco, ma di visione. Non nel senso fisico del termine, ma mentale. Il problema è il processo d’interpretazione dell’immagine che arriva sulla retina, non la percezione dell’immagine stessa. Chi soffre di questo disturbo capisce bene il significato di queste parole. Di giorno la visione è normale, i contorni degli oggetti ben definiti e i particolari ben visibili. Di notte tutto sembra sparire, come nascosto dietro un velo grigio. Silvia si è dileguata tra la folla. All’improvviso, qualcuno afferra la mia mano con forza e inizia a farmi strada tra la folla. Una sensazione di sicurezza e benessere mi avvolge. La stessa sensazione che si prova nel ritrovare la strada persa. Tutti i ricordi dell’infanzia diventano chiari e puliti. In un attimo sono all’ingresso della metropolitana. Osservo l’uomo che mi ha trascinato. È Brian. Prende le mie mani tra le sue, mi bacia, infila un bigliettino nella mia tasca e va via senza dire nulla. Abbasso lo sguardo verso destra, al mio fianco c’è un bambino dal viso familiare. Tiro fuori il biglietto dalla tasca e leggo. Una sensazione di vertigini improvvisa mi fa barcollare, mi sento svenire. Buio. Al risveglio, un nuovo tepore mi avvolge. Vorrei parlare, ma riesco solo a piangere e urlare. Intorno a me ci sono tante persone e tanto sangue. Anch’io sono coperto di sangue. Delle forbici mi tagliano qualcosa che spunta dall’ombelico. Mani enormi mi puliscono e mi mettono tra le braccia di una donna pallida e sudata. -Benvenuto in questo mondo Brian, io sono la tua mamma.
I miei ricordi iniziano a svanire, cerco di trattenerli. Riesco solo a sentire una cantilena, sono le parole che avevo letto prima di chiudere gli occhi:

L’ORDINE È ARTIFICIALE, ANCHE CIÒ CHE VUOI CAPIRE È ARTIFICIALE

LE CASE DEI MORTI SONO STRATI DI ROCCE

LE VOCI DEI MORTI SONO SOFFI DI VENTO

LE OSSA DEI MORTI SONO LEGNA DA ARDERE

LE VITE DEI VIVI SONO DEI CONTINUI RINASCERE

LINGUE DI PIETRA APPESANTISCONO IL PENSIERO FINO A FARLO CADERE NELL’INESPRIMIBILE

mercoledì 9 giugno 2010

Il mestiere di scrivere

Scrivo perché non posso fare un lavoro normale come gli altriScrivo perché dei libri come i miei siano scritti e io li possa leggere. Scrivo perché ce l'ho con voi tutti, contro il mondo. Scrivo perché mi piace stare chiuso in una stanza tutto il giorno. Scrivo perché non posso sopportare la realtà se non trasformandola. Scrivo perché il mondo intero sappia che genere di vita io, gli altri, noi tutti abbiamo vissuto e continuiamo a vivere a Istanbul, in Turchia. Scrivo perché amo l'odore della carta e dell'inchiostro. Scrivo perché credo più di tutto nella letteratura, nell'arte del romanzo. Scrivo per abitudine, per  passione. Scrivo perché ho paura di essere dimenticato. Scrivo perché apprezzo la fama e l'interesse che ne derivano. Scrivo per star solo. Scrivo nella speranza di capire perché ce l'ho così tanto con voi tutti, con il mondo intero. Scrivo perché mi piace essere letto. Scrivo, dicendomi, che bisogna finire questo romanzo, questa pagina, che ho cominciato. Scrivo, dicendomi, che è quello che tutti si aspettano da me. Scrivo perché come un bambino credo nell'immortalità delle biblioteche e nella posizione che vi mantengono i miei libri. Scrivo perché la vita, il mondo, tutto è incredibilmente bello ed esaltante. Scrivo perché è piacevole tradurre in parole tutta questa bellezza e la ricchezza della vita. Scrivo non per raccontare una storia bensì per costruirla. Scrivo per sfuggire al sentimento di non potere raggiungere un luogo verso cui si aspira, come nei sogni. Scrivo perché non riesco ad essere felice qualsiasi cosa faccia. Scrivo per essere felice.

(Orhan Pamuk) 

Contributo visivo: vignetta del fumetto "Le straordinarie avventure di Pentothal" di Andrea Pazienza, 1977